Femmina accabadora

La femina accabadora, femina agabbadòra o, più comunemente, agabbadora o accabadora (s’agabbadóra, lett. “colei che finisce”, deriva dal sardo s’acabbu, “la fine” o dallo spagnolo acabar, “terminare”) è una figura a cavallo tra leggenda popolare e realtà, non esiste documentazione scritta (ma solo un leggenda tramandata oralmente) che parli di donne incaricate di portare la morte a persone di qualunque età, nel caso in cui queste fossero in condizioni di malattia tali da portare i familiari o la stessa vittima a richiederla, ai tempi nostri la chiameremo eutanasia.

In realtà non ci sono prove di tale pratica, che avrebbe riguardato tutte le regioni sarde. La pratica, secondo i racconti che se ne fanno, non doveva essere retribuita dai parenti del malato poiché il pagare per dare la morte era contrario ai dettami religiosi.

Troviamo tracce, sempre non documentate, di forme di eutanasia anche in altri popoli e culture: nell’antica Grecia si chiamavano Moire, erano figlie della notte e padrone del destino; nell’antica Roma troviamo le Parche e nel mondo teutonico c’erano le Norne.

Caratteristica di tutte queste figure popolari, ad esclusione delle agabbadora, è che filavano. Ad ogni filo corrispondeva una vita, quando decidevano di reciderlo era finita, giudizio insindacabile.

La leggenda narra che le pratiche di uccisione utilizzate dalla femina agabbadora variavano a seconda del luogo: entrare nella stanza del morente vestita di nero, con il volto coperto, e ucciderlo tramite soffocamento con un cuscino, oppure colpendolo sulla fronte tramite un bastone d’olivo (su matzolu) o dietro la nuca con un colpo secco, o ancora strangolandolo ponendo il collo tra le sue gambe.

Lo strumento più rinomato sarebbe una sorta di martello di legno.

Non c’è unanimità storica su questa figura: alcuni antropologi ritengono che la femina agabbadora non sia mai esistita. Non ci sono prove della femmina agabbadora come tale, ma di donne che portavano conforto nelle famiglie dove c’era un moribondo, accompagnandolo fino all’ultimo istante. Aiutavano nell’agonia e davano sostegno, perciò erano rispettate da tutta la comunità, ma non uccidevano.

Il tutto si potrebbe spiegare con l’usanza tutta sarda dei racconti fantastici allo scopo di incutere paura “sos contos de forredda” (i racconti del focolare), poiché di solito il luogo della narrazione era accanto al fuoco di un camino. La credulità popolare farebbe il resto.

Si riporta che durante il ‘900 vi siano state le ultime tre pratiche di una Femmina Agabbadora: una a Luras (1929), una a Orgosolo (1952) e una a Oristano, sede peraltro di un ospedale. Oggigiorno, chi crede in queste storie le giustifica adducendo i problemi dei tempi passati, tra cui le difficoltà di spostamento del malato in paesi isolati e molto distanti da qualsiasi ospedale perché la famiglia di un soggetto non autosufficiente incontrava problemi di assistenza.

Alcune leggende non descrivono come strumento principale dell’agabbadora una mazza, ma un piccolo giogo in miniatura che veniva poggiato sotto il cuscino del moribondo, al fine di alleviare la sua agonia.

Altro rito che veniva compiuto era quello di togliere dalla stanza del moribondo tutte le immagini sacre e tutti gli oggetti a lui cari: si credeva in questo modo di rendere più semplice e meno doloroso il distacco dello spirito dal corpo.

Secondo l’antropologo Francesco Alziator, il compito dell’agabbadora non è tanto quello di mettere fine nel senso letterale del termine alle sofferenze dei moribondi con l’utilizzo di uno strumento palesemente inquietante, quanto quello di cercare di accompagnarli alla fine della loro agonia tramite riti di cui si è sicuramente persa la memoria.

Se le agabbadora siano state reali o solo una leggenda popolare, se portavano veramene la morte al malato o gli alleviavano gli ultimi giorni di sofferenza, non ci sarà mai modo di saperlo, l’unica cosa certa è che è un’altra di quelle numerose “verità/leggende” che girano per l’Italia misteriosa e noir.

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